Una divertente curiosità storica si trova nella statua equestre di Ferdinando I dei Medici (1549-1609) - posta al centro di piazza SS. Annunziata.
La scultura, ultimo lavoro del Giambologna terminato poi da Pietro Tacca, ricorda le imprese del coraggioso Granduca che sconfisse i corsari saraceni – terrore dei naviganti del mediterraneo.
La statua è ricavata con il bronzo dei cannoni nemici – come ricorda la frase scritta sul sottopancia della sella.
Nella parte posteriore del piedistallo si trova un’originale tavola di bronzo a rilievo con un’ape regina circondata da molte api disposte in cerchio - a simboleggiare la centralità del Granduca rispetto al popolo laborioso.
Questa tavola è stata spesso usata per valutare l’abilità nel contare rapidamente gli oggetti. Ancora oggi, si portano i bambini dietro alla statua - promettendo loro un regalo in cambio della risposta esatta.
Un bambino di 8 anni, piuttosto sveglio, indovina il numero delle api (91) in un minuto. Provare per credere!
giovedì 24 gennaio 2008
lunedì 21 gennaio 2008
Cecco Angiolieri
Donne, dado e taverna. Il suo motto
Questo il frammento del suo sonetto più celebre:
S'i' fosse fuoco, arderei 'l mondo; s'i' fosse vento, lo tempestarei;
s'i' fosse acqua, i' l'annegherei; s'i' fosse Dío, mandereil' en profondo;
…...S'i' fosse Cecco, com' i' sono e fui, terrei le donne giovani e leggiadre: le zop[p]e e vecchie lasserei altrui.
Un uomo frivolo e spensierato, disordinato e dissipatore, che nacque a Siena da una potente famiglia di banchieri ed ebbe come ideali appunto, solamente: le donne, la taverna e il dado (sono parole sue!).
Nel corso della vita dilapidò tutte le ricchezze paterne e morì in miseria carico di debiti, tanto che i figli rinunciarono alla sua eredità...
Cecco Angiolieri ci ha lasciato però un consistente canzoniere, che lo ha fatto diventare il più noto rappresentante della tradizione poetica realistico-giocosa medioevale.
Un Baudelaire ante litterem.
All'amore spirituale contrappone sempre quello sensuale, al motivo della lode quello dell'ingiuria, alla donna angelo quella volgare, alla celebrazione delle virtù morali l'elogio dei piaceri della vita.
Angiolieri potè però vantare l'amicizia di Dante Alighieri, che sfidò a una tenzone di sonetti.
Il Boccaccio gli dedicò una novella del Decameron, prendendolo come prototipo del gaudente e dello scapestrato.
Questo il frammento del suo sonetto più celebre:
S'i' fosse fuoco, arderei 'l mondo; s'i' fosse vento, lo tempestarei;
s'i' fosse acqua, i' l'annegherei; s'i' fosse Dío, mandereil' en profondo;
…...S'i' fosse Cecco, com' i' sono e fui, terrei le donne giovani e leggiadre: le zop[p]e e vecchie lasserei altrui.
Un uomo frivolo e spensierato, disordinato e dissipatore, che nacque a Siena da una potente famiglia di banchieri ed ebbe come ideali appunto, solamente: le donne, la taverna e il dado (sono parole sue!).
Nel corso della vita dilapidò tutte le ricchezze paterne e morì in miseria carico di debiti, tanto che i figli rinunciarono alla sua eredità...
Cecco Angiolieri ci ha lasciato però un consistente canzoniere, che lo ha fatto diventare il più noto rappresentante della tradizione poetica realistico-giocosa medioevale.
Un Baudelaire ante litterem.
All'amore spirituale contrappone sempre quello sensuale, al motivo della lode quello dell'ingiuria, alla donna angelo quella volgare, alla celebrazione delle virtù morali l'elogio dei piaceri della vita.
Angiolieri potè però vantare l'amicizia di Dante Alighieri, che sfidò a una tenzone di sonetti.
Il Boccaccio gli dedicò una novella del Decameron, prendendolo come prototipo del gaudente e dello scapestrato.
La forchetta
Nel Medioevo, anche le Grandi Dame e i rispettabilissimi Cavalieri magiavano con le mani. Del resto, nello stesso modo mangiavano anche gli Etruschi e i Romani.
Non c’è da scandalizzarci, non erano certo maleducati, semplicemente ignoravano l’uso di quell’oggetto per noi d’uso comune che si chiama forchetta!
Qualcuno potrebbe obiettare che, in qualche museo, ha visto alcuni esemplari simil-forchetta.
Sì, è vero, ma era uno strumento che veniva usato dal cuoco durante lo svolgimento del suo mestiere e non era certo uno strumento d’uso per il convivio. Quello strumento serviva ad ad afferrare e tenere ferma la carne bollente sotto al coltello in cucina.
La prima vera ed autentica forchetta fece la sua comparsa verso la fine del 1300 nelle argenterie del Re di Francia, ma era pensiero comune che utilizzarla tra gli uomini fosse un segno di debolezza…
Tant’è che anche Messisbugo - famoso cuoco della corte Ferrarese - fra le cose necessarie per la tavola non menziona mai la forchetta.
Anche il più “nobile” Clero mai utilizzava la forchetta influenzato com’era dalla maledizione di San Pier Damiano (monaco dell’anno mille) che la considerava un lusso diabolico…
Insomma fino ad una certa epoca l’uso della forchetta veniva considerato, bene che andasse, una raffinatezza scandalosa ed è notissimo l’episodio della principessa bizantina che, ospite in Francia, prendendo il cibo con “il forcuto strumento” (per una questione di “buone maniere”) suscitò la riprovazione dei prelati.
Poi col tempo, il suo uso divenne frequente fra i ricchi nell’epoca di Caterina De’Medici, ma per arrivare ad un suo utilizzo diffuso bisogna aspettare oltre la metà del 1700, quando venne celebrato il famoso matrimonio tra…forchetta e spaghetti!
Pare infatti che la forchetta divenne d’uso comune soprattutto per agevolare la presa dei cosiddetti “fili di pasta” ovvero gli spaghetti.
E pensare che ancor’oggi, per molti, è proprio l’incontro con gli spaghetti il momento più ostico nell’uso della forchetta…
Non c’è da scandalizzarci, non erano certo maleducati, semplicemente ignoravano l’uso di quell’oggetto per noi d’uso comune che si chiama forchetta!
Qualcuno potrebbe obiettare che, in qualche museo, ha visto alcuni esemplari simil-forchetta.
Sì, è vero, ma era uno strumento che veniva usato dal cuoco durante lo svolgimento del suo mestiere e non era certo uno strumento d’uso per il convivio. Quello strumento serviva ad ad afferrare e tenere ferma la carne bollente sotto al coltello in cucina.
La prima vera ed autentica forchetta fece la sua comparsa verso la fine del 1300 nelle argenterie del Re di Francia, ma era pensiero comune che utilizzarla tra gli uomini fosse un segno di debolezza…
Tant’è che anche Messisbugo - famoso cuoco della corte Ferrarese - fra le cose necessarie per la tavola non menziona mai la forchetta.
Anche il più “nobile” Clero mai utilizzava la forchetta influenzato com’era dalla maledizione di San Pier Damiano (monaco dell’anno mille) che la considerava un lusso diabolico…
Insomma fino ad una certa epoca l’uso della forchetta veniva considerato, bene che andasse, una raffinatezza scandalosa ed è notissimo l’episodio della principessa bizantina che, ospite in Francia, prendendo il cibo con “il forcuto strumento” (per una questione di “buone maniere”) suscitò la riprovazione dei prelati.
Poi col tempo, il suo uso divenne frequente fra i ricchi nell’epoca di Caterina De’Medici, ma per arrivare ad un suo utilizzo diffuso bisogna aspettare oltre la metà del 1700, quando venne celebrato il famoso matrimonio tra…forchetta e spaghetti!
Pare infatti che la forchetta divenne d’uso comune soprattutto per agevolare la presa dei cosiddetti “fili di pasta” ovvero gli spaghetti.
E pensare che ancor’oggi, per molti, è proprio l’incontro con gli spaghetti il momento più ostico nell’uso della forchetta…
martedì 15 gennaio 2008
Ghino di Tacco: masnadiero di Radicofani
Ghinotto di Tacco detto "Ghino" nacque da uno dei più importanti casati senesi: la famiglia Cacciaconti Monacheschi Pecorai alla Fratta antico feudo posto tra Torrita di Siena e Asinalunga (l'odierna Sinalunga).
Il padre, Tacco di Ugolino, assieme al fratello e ai suoi due figli, commetteva furti e rapine; aveva tra l'altro appiccato il fuoco al castello di Torrita e fu condannato per aver ferito gravemente Jacopino da Guardavalle.
Il Comune di Siena combatté molto contro Tacco ed alla fine, nel 1285 lo catturò assieme al fratello ed al figlio minore Turino. Furono torturati e giustiziati nella piazza del Campo l'anno seguente, su sentenza del famoso giurista Benincasa da Laterina.
Ghino però continuava a "scorrazzare" ed è appurato che nel 1290 Siena indagava sulla sua intenzione di costruire una nuova fortezza tra Sinalunga e Guardavalle. Ghino a questo punto, bandito dal contado senese e si rifugiò, a Radicofani, punto di collegamento e territorio conteso tra il dominio Pontificio e lo Stato di Siena.
Qui i viandanti - Radicofani era posta in corrispondenza del tracciato della via Francigena - venivano attirati in imboscate e derubati di ogni loro avere; dovevano accontentarsi in cambio, di un banchetto che veniva loro offerto dal bandito in persona!
Ghino di Tacco fece di Radicofani la propria signoria ed il proprio covo. Era però una sorta di Robin Hood ante litteram, che prima di estorcere si informava sui reali possedimenti della propria vittima, lasciandole sempre di che vivere!
Ma in cuor suo serbava sempre spirito di vendetta contro il giustiziere del padre e così partì per Roma, al comando di quattrocento uomini, entrò in tribunale e tagliò la testa del giudice Benincasa (episodio riportato da Dante nella Divina Commedia Purg. VI 13,14).
Tornò poi a Radicofani dove continuò ad esercitare "l'arte della rapina". Divenne leggendario per la sua spavalderia, ma indubbiamente potè però contare su un covo imprendibile (una rocca talmente potente che neppure le truppe imperiali e medicee, con i loro potenti cannoni, riusciranno nel 1555 a prendere).
Ma la leggenda di Ghino andò ben oltre!
Boccaccio ci narra infatti - nella II novella del Decameron del X giorno - il trattamento da lui riservato all'abate di Clunj, che diretto a Roma, aveva deciso di recarsi alle acque termali di San Casciano dei Bagni per curare un mal di stomaco.
Ghino catturò l'abate, lo fece rinchiudere nella rocca nutrendolo soltanto con pane e fave secche. Questa ferrea dieta però, guarì prodigiosamente l'Abate dal suo mal di stomaco e così egli, riconoscente, intercesse presso il papa Bonifazio VIII per una riconciliazione con Ghino.
Il Papa si convinse e addirittura nominò Ghino Cavaliere di S.Giovanni e Friere dell'ospedale di Santo Spirito. Si adoperò in favore di Ghino anche con la Repubblica di Siena ottenendogli il perdono!
Il luogo della morte di questa leggendaria figura è incerta, alcuni lo dicono morto a Roma, mentre altri lo vogliono assassinato ad Asinalunga. Tra questi ultimi vi è Benvenuto da Imola - abbastanza attendibile perché vissuto non molto tempo dopo - che di Ghino ha tra l' altro, detto "non fu infame come alcuni scrivono... ma fu uomo mirabile, grande, vigoroso..." contribuendo all' opera di riabilitazione del personaggio.
Il padre, Tacco di Ugolino, assieme al fratello e ai suoi due figli, commetteva furti e rapine; aveva tra l'altro appiccato il fuoco al castello di Torrita e fu condannato per aver ferito gravemente Jacopino da Guardavalle.
Il Comune di Siena combatté molto contro Tacco ed alla fine, nel 1285 lo catturò assieme al fratello ed al figlio minore Turino. Furono torturati e giustiziati nella piazza del Campo l'anno seguente, su sentenza del famoso giurista Benincasa da Laterina.
Ghino però continuava a "scorrazzare" ed è appurato che nel 1290 Siena indagava sulla sua intenzione di costruire una nuova fortezza tra Sinalunga e Guardavalle. Ghino a questo punto, bandito dal contado senese e si rifugiò, a Radicofani, punto di collegamento e territorio conteso tra il dominio Pontificio e lo Stato di Siena.
Qui i viandanti - Radicofani era posta in corrispondenza del tracciato della via Francigena - venivano attirati in imboscate e derubati di ogni loro avere; dovevano accontentarsi in cambio, di un banchetto che veniva loro offerto dal bandito in persona!
Ghino di Tacco fece di Radicofani la propria signoria ed il proprio covo. Era però una sorta di Robin Hood ante litteram, che prima di estorcere si informava sui reali possedimenti della propria vittima, lasciandole sempre di che vivere!
Ma in cuor suo serbava sempre spirito di vendetta contro il giustiziere del padre e così partì per Roma, al comando di quattrocento uomini, entrò in tribunale e tagliò la testa del giudice Benincasa (episodio riportato da Dante nella Divina Commedia Purg. VI 13,14).
Tornò poi a Radicofani dove continuò ad esercitare "l'arte della rapina". Divenne leggendario per la sua spavalderia, ma indubbiamente potè però contare su un covo imprendibile (una rocca talmente potente che neppure le truppe imperiali e medicee, con i loro potenti cannoni, riusciranno nel 1555 a prendere).
Ma la leggenda di Ghino andò ben oltre!
Boccaccio ci narra infatti - nella II novella del Decameron del X giorno - il trattamento da lui riservato all'abate di Clunj, che diretto a Roma, aveva deciso di recarsi alle acque termali di San Casciano dei Bagni per curare un mal di stomaco.
Ghino catturò l'abate, lo fece rinchiudere nella rocca nutrendolo soltanto con pane e fave secche. Questa ferrea dieta però, guarì prodigiosamente l'Abate dal suo mal di stomaco e così egli, riconoscente, intercesse presso il papa Bonifazio VIII per una riconciliazione con Ghino.
Il Papa si convinse e addirittura nominò Ghino Cavaliere di S.Giovanni e Friere dell'ospedale di Santo Spirito. Si adoperò in favore di Ghino anche con la Repubblica di Siena ottenendogli il perdono!
Il luogo della morte di questa leggendaria figura è incerta, alcuni lo dicono morto a Roma, mentre altri lo vogliono assassinato ad Asinalunga. Tra questi ultimi vi è Benvenuto da Imola - abbastanza attendibile perché vissuto non molto tempo dopo - che di Ghino ha tra l' altro, detto "non fu infame come alcuni scrivono... ma fu uomo mirabile, grande, vigoroso..." contribuendo all' opera di riabilitazione del personaggio.
Il primo dizionario italiano è nato a Pistoia
Policarpo Petrocchi è pistoiese illustre, ma ahimè poco noto.
Un uomo fondamentale nella storia della nostra cultura nazionale. Si deve infatti a lui la stesura del primo vocabolario della lingua italiana, pubblicato a dispense fra il 1884 ed il 1890 a Milano dalla casa editrice dei Fratelli Treves, allora la più importante del giovanissimo regno d’Italia.
Nato a Castello di Cireglio, nel 1852, il Petrocchi dedicò la sua vita all’insegnamento e agli studi filologici, lasciando ai posteri il fondamentale vocabolario “Il Novo dizionario universale della lingua italiana”.
Fu questo, per oltre mezzo secolo, il vocabolario più diffuso in Italia. Dava l'indicazione esatta della pronuncia, separando nettamente la lingua viva dalla lingua morta ed era ricchissimo di esempi raccolti dalla stesso autore.
Lo scopo del Nuovo Dizionario fu quello, cominciando fin dai banchi della scuola elementare, di unificare linguisticamente un paese scarsamente alfabetizzato e diviso da dialetti.
«Attenendoci ad una sola misura, stando a una sola parlata, faremo come tanti bravi soldati intorno a una sola bandiera – scriveva lo stesso Petrocchi -. Faremo finalmente un vocabolario, una grammatica sola, chiara, facile anche per gli stranieri che trovan tanto indigesta la nostra lingua… E non ci avverrà più di scambiare quelli del nostro paese per inglesi e tedeschi».
Fu proprio grazie a questo lavoro che i maestri delle scuole d’Italia poterono insegnare una lingua uniforme ai giovani.
Quelle giovani generazioni che poi, imbevute di retorica patriottica, furono inviate nelle trincee della prima guerra mondiale al macello.
Colto ed intelligentissimo, Petrocchi fu anche, per la sua epoca, un vero anticonformista.
Si innamorò di una donna sposata, che peraltro aveva già una figlia, e con lei visse “more uxorio” per oltre vent’anni!
Grazie all’analisi dei suoi manoscritti, conservati presso la Biblioteca Forteguerriana, studiosi e linguisti cercano di evincere nella cultura contemporanea le tracce dell’opera di Petrocchi, il cui vocabolario, è bene ricordarlo, restò in uso fino al 1952.
Ancora oggi la sua opera, esaurito il suo compito pedagogico, resta la testimonianza più viva e più ricca dell'uso del fiorentino (e del toscano) parlato tardo ottocentesco.
Un uomo fondamentale nella storia della nostra cultura nazionale. Si deve infatti a lui la stesura del primo vocabolario della lingua italiana, pubblicato a dispense fra il 1884 ed il 1890 a Milano dalla casa editrice dei Fratelli Treves, allora la più importante del giovanissimo regno d’Italia.
Nato a Castello di Cireglio, nel 1852, il Petrocchi dedicò la sua vita all’insegnamento e agli studi filologici, lasciando ai posteri il fondamentale vocabolario “Il Novo dizionario universale della lingua italiana”.
Fu questo, per oltre mezzo secolo, il vocabolario più diffuso in Italia. Dava l'indicazione esatta della pronuncia, separando nettamente la lingua viva dalla lingua morta ed era ricchissimo di esempi raccolti dalla stesso autore.
Lo scopo del Nuovo Dizionario fu quello, cominciando fin dai banchi della scuola elementare, di unificare linguisticamente un paese scarsamente alfabetizzato e diviso da dialetti.
«Attenendoci ad una sola misura, stando a una sola parlata, faremo come tanti bravi soldati intorno a una sola bandiera – scriveva lo stesso Petrocchi -. Faremo finalmente un vocabolario, una grammatica sola, chiara, facile anche per gli stranieri che trovan tanto indigesta la nostra lingua… E non ci avverrà più di scambiare quelli del nostro paese per inglesi e tedeschi».
Fu proprio grazie a questo lavoro che i maestri delle scuole d’Italia poterono insegnare una lingua uniforme ai giovani.
Quelle giovani generazioni che poi, imbevute di retorica patriottica, furono inviate nelle trincee della prima guerra mondiale al macello.
Colto ed intelligentissimo, Petrocchi fu anche, per la sua epoca, un vero anticonformista.
Si innamorò di una donna sposata, che peraltro aveva già una figlia, e con lei visse “more uxorio” per oltre vent’anni!
Grazie all’analisi dei suoi manoscritti, conservati presso la Biblioteca Forteguerriana, studiosi e linguisti cercano di evincere nella cultura contemporanea le tracce dell’opera di Petrocchi, il cui vocabolario, è bene ricordarlo, restò in uso fino al 1952.
Ancora oggi la sua opera, esaurito il suo compito pedagogico, resta la testimonianza più viva e più ricca dell'uso del fiorentino (e del toscano) parlato tardo ottocentesco.
martedì 8 gennaio 2008
I pirati ubriachi
I vitigni che si riproducono su piccole isole in mezzo al mare, acquistano peculiarità molto diverse dalle stesse varietà nate sul continente, così anche il vino che producono è un vino del tutto particolare.
L’Ansonica ad esempio, è un particolare vino tipico dell’Isola del Giglio che fa veramente parte della vita dei suoi abitanti. Ancor’oggi infatti, i gigliesi non si sottraggono mai al rito di riunirsi intorno a un tavolo e bere un buon bicchiere di Ansonica.
Del resto per loro quel vino è veramente leggendario in tutti i sensi. Fu lui infatti il più prezioso alleato dei gigliesi contro i pirati saraceni!
Si racconta che quest’ultimi trovarono dei barili di vino e si lanciarono subito fra le braccia di Bacco perdendo di vista armi e bottino. Erano talmente ubriachi che non si ricordavano più cos’erano andati lì a fare e furono così facilmente fatti tutti prigionieri e condotti in quella località denominata, da quel momento, Canto del Turco.
Provate anche voi l’Ansonica in quelle piccole cantine che servono il vino locale perché la produzione è limitata.
Mi raccomando con moderazione se non volete fare la fine dei pirati Saraceni perché col suo bel colore ambrato l’Ansonica può ingannare, ma è un vino forte: un bianco di circa 14 gradi!
L’Ansonica ad esempio, è un particolare vino tipico dell’Isola del Giglio che fa veramente parte della vita dei suoi abitanti. Ancor’oggi infatti, i gigliesi non si sottraggono mai al rito di riunirsi intorno a un tavolo e bere un buon bicchiere di Ansonica.
Del resto per loro quel vino è veramente leggendario in tutti i sensi. Fu lui infatti il più prezioso alleato dei gigliesi contro i pirati saraceni!
Si racconta che quest’ultimi trovarono dei barili di vino e si lanciarono subito fra le braccia di Bacco perdendo di vista armi e bottino. Erano talmente ubriachi che non si ricordavano più cos’erano andati lì a fare e furono così facilmente fatti tutti prigionieri e condotti in quella località denominata, da quel momento, Canto del Turco.
Provate anche voi l’Ansonica in quelle piccole cantine che servono il vino locale perché la produzione è limitata.
Mi raccomando con moderazione se non volete fare la fine dei pirati Saraceni perché col suo bel colore ambrato l’Ansonica può ingannare, ma è un vino forte: un bianco di circa 14 gradi!
Grandi mercanti rinascimentali: non solo fiorentini…
Grande è la fama storiografica delle grandi famiglie fiorentine arricchitesi con quello che oggi si chiama export in piena epopea Rinascimentale.
Meno famosa è invece la storia di coloro che, nell’indipendente Lucca, più o meno nello stesso contesto storico, fecero grande la piccola città toscana.
I grandi mercanti lucchesi infatti, anche se meno popolari dei fiorentini, esportavano in tutta Europa.
Le loro merci d’elite erano soprattutto: tessuti di seta, gioielli, monili suppellettili, argenti e pezzi di oreficeria. Specialisti del lusso.
Furono le stoffe soprattutto, a permettere ai mercanti lucchesi di arricchirsi a tal punto da trasformarsi in banchieri e di finanziare così le case reali e nobiliari dei paesi in cui esportavano.
La famiglia Sbarra, ad esempio, prestava denari alla Corte francese e i Rapoldi a quella di Fiandra. Il duca di Borgogna, addirittura, affidò a Dino Rapoldi il compito di riscuotere le imposte e di sorvegliare il conio delle monete. Un altro banchiere lucchese dei Conti di Borgogna fu il celebre Giovanni Arnolfini che con la sua destrezza oscurò addirittura la fama dei mercanti fiorentini tant’è che a Bruges si prese il l usso di farsi ritrarre, in compagnia della moglie Giovanna Cenami, dal pittore fiammingo più “alla moda” del quattrocento: Jan Van Eyck, autore fra l’altro di una Madonna di Lucca conservata al Museo di Francoforte. Il loro ritratto, considerato oggi uno dei maggiori capolavori dell’arte fiamminga, è invece conservato alla National Gallery di Londra.
Meno famosa è invece la storia di coloro che, nell’indipendente Lucca, più o meno nello stesso contesto storico, fecero grande la piccola città toscana.
I grandi mercanti lucchesi infatti, anche se meno popolari dei fiorentini, esportavano in tutta Europa.
Le loro merci d’elite erano soprattutto: tessuti di seta, gioielli, monili suppellettili, argenti e pezzi di oreficeria. Specialisti del lusso.
Furono le stoffe soprattutto, a permettere ai mercanti lucchesi di arricchirsi a tal punto da trasformarsi in banchieri e di finanziare così le case reali e nobiliari dei paesi in cui esportavano.
La famiglia Sbarra, ad esempio, prestava denari alla Corte francese e i Rapoldi a quella di Fiandra. Il duca di Borgogna, addirittura, affidò a Dino Rapoldi il compito di riscuotere le imposte e di sorvegliare il conio delle monete. Un altro banchiere lucchese dei Conti di Borgogna fu il celebre Giovanni Arnolfini che con la sua destrezza oscurò addirittura la fama dei mercanti fiorentini tant’è che a Bruges si prese il l usso di farsi ritrarre, in compagnia della moglie Giovanna Cenami, dal pittore fiammingo più “alla moda” del quattrocento: Jan Van Eyck, autore fra l’altro di una Madonna di Lucca conservata al Museo di Francoforte. Il loro ritratto, considerato oggi uno dei maggiori capolavori dell’arte fiamminga, è invece conservato alla National Gallery di Londra.
giovedì 3 gennaio 2008
Bon ton a tavola Made in Tuscany
Se in Europa oggi non si rutta a tavola, non si sputa in pubblico e si considera alcuni vocaboli (specie quelli che evocano la sfera sessuale) parolacce lo si deve all’Italia e al Rinascimento toscano.
A codificare per primo le norme moderne di bon ton fu infatti un ecclesiastico vissuto tra il 1503 e il 1556: Giovanni Della Casa, Arcivescovo di Benevento e nunzio apostolico a Venezia, autore di un libretto postumo subito tradotto in varie lingue europee: il Galateo overo de’costumi.
Una parte importante del libretto è dedicata all’abbigliamento.
Esempi: vestire in modo dignitoso e non eccentrico, non spogliarsi e stare scalzi in pubblico - ed ancora – non comparire mai con la cuffia da notte in testa.
Altro argomento importante è l’arte della conversazione con norme che a noi possono apparire elementari come non addormentarsi o tagliarsi le unghie mentre uno parla e poi ecco un bell’elenco di parole da evitare: meretrice, concubina e persino il verbo rinculare che Della Casa consiglia di sostituire con “farsi indietro”.
Ma l’argomento più trattato nel manuale è sicuramente come comportarsi a tavola.
Accanto a precetti ovvi quali lavarsi le mani e non grattarsi ne tossire sui cibi, il galateo propone anche norme bizzarre tipo “non fregarsi i denti sulla tovagliuola” e “chi porta legato al collo lo stuzzicadenti erra”, evidentemente erano queste abitudini un tempo molto diffuse!
Oggi, molte norme del Galateo possono sembrare scontate, ma così non lo è ancora nei paesi dove “l’effetto Rinascimento”non arrivò.
Ad esempio in Cina, sputare in pubblico e tutt’oggi molto normale; in gran parte del mondo (Africa, Artico e Medio Oriente) ruttare a fine pasto è ritenuto un garbatissimo segno di gradimento per il cibo…
A codificare per primo le norme moderne di bon ton fu infatti un ecclesiastico vissuto tra il 1503 e il 1556: Giovanni Della Casa, Arcivescovo di Benevento e nunzio apostolico a Venezia, autore di un libretto postumo subito tradotto in varie lingue europee: il Galateo overo de’costumi.
Una parte importante del libretto è dedicata all’abbigliamento.
Esempi: vestire in modo dignitoso e non eccentrico, non spogliarsi e stare scalzi in pubblico - ed ancora – non comparire mai con la cuffia da notte in testa.
Altro argomento importante è l’arte della conversazione con norme che a noi possono apparire elementari come non addormentarsi o tagliarsi le unghie mentre uno parla e poi ecco un bell’elenco di parole da evitare: meretrice, concubina e persino il verbo rinculare che Della Casa consiglia di sostituire con “farsi indietro”.
Ma l’argomento più trattato nel manuale è sicuramente come comportarsi a tavola.
Accanto a precetti ovvi quali lavarsi le mani e non grattarsi ne tossire sui cibi, il galateo propone anche norme bizzarre tipo “non fregarsi i denti sulla tovagliuola” e “chi porta legato al collo lo stuzzicadenti erra”, evidentemente erano queste abitudini un tempo molto diffuse!
Oggi, molte norme del Galateo possono sembrare scontate, ma così non lo è ancora nei paesi dove “l’effetto Rinascimento”non arrivò.
Ad esempio in Cina, sputare in pubblico e tutt’oggi molto normale; in gran parte del mondo (Africa, Artico e Medio Oriente) ruttare a fine pasto è ritenuto un garbatissimo segno di gradimento per il cibo…
Tiburzi: La leggenda del celebre bandito maremmano
Morto è l'intrepido forte leone.
E' morto il celebre re di Lamone e il corpo esanime giacente e spento poi dopo morto mette spavento.
Nel volto pallido barbuto e fiero potevi scorgere il Cavaliero, potevi scorgere che quel brigante aveva nobile, civil sembiante.
Anche una poesia – opera di anonimo – celebra le epiche gesta di Domenico Tiburzi, figura controversa del mondo del brigantaggio maremmano ottocentesco.
A distanza di oltre un secolo, ancor’oggi, c’è chi lo condanna senza appello come crudele bandito che si è macchiato di circa venti omicidi e chi invece lo mitizza quale paladino dei diseredati, facendone un romantico eroe che prendeva ai ricchi per dare ai poveri.
Comunque sia, l’avventurosa vita di Tiburzi finì la notte del 23 ottobre 1896 quando cadde in un agguato dei carabinieri alle Forane, presso la casa di campagna della famiglia Franci (a cui aveva chiesto o preteso ospitalità), dove si era rifugiato insieme all’inseparabile compagno Fioravanti.
Di certo sappiamo dalle cronache che ci fu una sparatoria e Tiburzi venne colpito ad una gamba; quel che accadde poi non è chiaro.
Secondo una versione furono i carabinieri ad ucciderlo con alcuni colpi di pistola; secondo l’altra versione fu lo stesso “Re di Lamone” a suicidarsi, preferendo morire piuttosto che cadere nelle grinfie della legge.
Ma se gli ultimi minuti della sua vita sono avvolti in un alone di mistero, ancora più misteriosa, anzi addirittura leggendaria, è la vicenda legata alla sua sepoltura.
Sono trascorsi più di cento anni da questi avvenimenti, ma finora non sono bastate indagini, ricerche ed inchieste per far luce piena su ciò che davvero accadde quella sera d’autunno…
La versione più accreditata, ma anche la più fantasiosa, è quella secondo cui il parroco di Capalbio rifiutò di officiare una regolare cerimonia funebre e la sepoltura in camposanto per quell'uomo ritenuto un criminale, un peccatore, un senza Dio.
Però la volontà del prete si scontrò con quella dell'intera comunità, che invece, esigeva per il “paladino dei diritti dei più deboli” un’onorata sepoltura in terra consacrato.
Si arrivò così ad un compromesso: il corpo di Domenico Tiburzi poteva essere sepolto in terra consacrata ma... solo per metà! L'altra doveva restare fuori dal cimitero!
E così fu. La fossa fu predisposta proprio al cancello d'ingresso del camposanto con gli arti inferiori dentro, ma la testa, il torace - e dunque l'anima - fuori. Niente croce né una targa, oblio completo.
Ma tutto oggi è davvero avvolto nel mistero perché nel frattempo, il cimitero di Caparbio si è ampliato, si sono perse le tracce dell’antico cancello che poteva essere l’unico punto di riferimento della sepoltura e quindi, Domenico Tiburzi, il “Re della macchia”, il mitico bandito maremmano, giace avvolto nel suo alone leggendario che non fa che aumentarne la fama.
E' morto il celebre re di Lamone e il corpo esanime giacente e spento poi dopo morto mette spavento.
Nel volto pallido barbuto e fiero potevi scorgere il Cavaliero, potevi scorgere che quel brigante aveva nobile, civil sembiante.
Anche una poesia – opera di anonimo – celebra le epiche gesta di Domenico Tiburzi, figura controversa del mondo del brigantaggio maremmano ottocentesco.
A distanza di oltre un secolo, ancor’oggi, c’è chi lo condanna senza appello come crudele bandito che si è macchiato di circa venti omicidi e chi invece lo mitizza quale paladino dei diseredati, facendone un romantico eroe che prendeva ai ricchi per dare ai poveri.
Comunque sia, l’avventurosa vita di Tiburzi finì la notte del 23 ottobre 1896 quando cadde in un agguato dei carabinieri alle Forane, presso la casa di campagna della famiglia Franci (a cui aveva chiesto o preteso ospitalità), dove si era rifugiato insieme all’inseparabile compagno Fioravanti.
Di certo sappiamo dalle cronache che ci fu una sparatoria e Tiburzi venne colpito ad una gamba; quel che accadde poi non è chiaro.
Secondo una versione furono i carabinieri ad ucciderlo con alcuni colpi di pistola; secondo l’altra versione fu lo stesso “Re di Lamone” a suicidarsi, preferendo morire piuttosto che cadere nelle grinfie della legge.
Ma se gli ultimi minuti della sua vita sono avvolti in un alone di mistero, ancora più misteriosa, anzi addirittura leggendaria, è la vicenda legata alla sua sepoltura.
Sono trascorsi più di cento anni da questi avvenimenti, ma finora non sono bastate indagini, ricerche ed inchieste per far luce piena su ciò che davvero accadde quella sera d’autunno…
La versione più accreditata, ma anche la più fantasiosa, è quella secondo cui il parroco di Capalbio rifiutò di officiare una regolare cerimonia funebre e la sepoltura in camposanto per quell'uomo ritenuto un criminale, un peccatore, un senza Dio.
Però la volontà del prete si scontrò con quella dell'intera comunità, che invece, esigeva per il “paladino dei diritti dei più deboli” un’onorata sepoltura in terra consacrato.
Si arrivò così ad un compromesso: il corpo di Domenico Tiburzi poteva essere sepolto in terra consacrata ma... solo per metà! L'altra doveva restare fuori dal cimitero!
E così fu. La fossa fu predisposta proprio al cancello d'ingresso del camposanto con gli arti inferiori dentro, ma la testa, il torace - e dunque l'anima - fuori. Niente croce né una targa, oblio completo.
Ma tutto oggi è davvero avvolto nel mistero perché nel frattempo, il cimitero di Caparbio si è ampliato, si sono perse le tracce dell’antico cancello che poteva essere l’unico punto di riferimento della sepoltura e quindi, Domenico Tiburzi, il “Re della macchia”, il mitico bandito maremmano, giace avvolto nel suo alone leggendario che non fa che aumentarne la fama.
mercoledì 2 gennaio 2008
A Ufo
E' un termine tutto toscano che significa "gratuitamente", "alle spalle degli altri"; lo si usa generalmente per dire "mangiare a ufo","bere a ufo", "vivere a ufo", ecc..
Niente ha a che fare con gli alieni degli altri pianeti...
Questa toscanissima espressione risale al 1300 ed ha avuto origine con la costruzione del Duomo di Firenze.
Per la sua realizzazione erano necessarie materie prime, come il legno, il marmo, il ferro, ecc., in grande quantità, e tutto ciò che era destinato all'opera di Santa Maria del Fiore era esente da tasse.
Per questo motivo sopra i materiali, destinati ad un'opera così grandiosa, veniva riportata la scritta "Ad Usum Florentinae Operae".
Da qui nacque l'abbreviazione "a U.F.O.".
Niente ha a che fare con gli alieni degli altri pianeti...
Questa toscanissima espressione risale al 1300 ed ha avuto origine con la costruzione del Duomo di Firenze.
Per la sua realizzazione erano necessarie materie prime, come il legno, il marmo, il ferro, ecc., in grande quantità, e tutto ciò che era destinato all'opera di Santa Maria del Fiore era esente da tasse.
Per questo motivo sopra i materiali, destinati ad un'opera così grandiosa, veniva riportata la scritta "Ad Usum Florentinae Operae".
Da qui nacque l'abbreviazione "a U.F.O.".
Il figlio dell'ultimo Granduca di Toscana
Ferdinando: il figlio dell’ultimo Granduca di Toscana che non imparò mai il tedesco…
Non salì mai sul trono di Toscana e fu costretto insieme al padre e agli altri familiari a fuggire da Firenze e dall’amata Toscana il 27 aprirle 1859.
Lo fece con grandissima tristezza perché amava la nostra terra e perchè aveva da poco seppellito la giovane moglie – morta di tifo durante un soggiorno a Napoli – nella Cappella Lorena in San Lorenzo.
Era un grande ed insospettabile appassionato di fotografia, la nuova arte imparata a Pisa andando a lezione da Van Lint con il quale aveva partecipato ad una grande campagna fotografica in occasione dell’inaugurazione delle linee ferroviarie granducali; uno dei più preziosi gioielli che i principi austriaci ci hanno lasciato in eredità.
Come suo padre, il famoso “Canapone” che altri non era che il Granduca Leopoldo II di Lorena soffrì moltissimo la lontananza di Firenze dove era nato e cresciuto tant’è che nella sua pur sontuosa dimora di Salisburgo aveva praticamente ricreato una copia di Palazzo Pitti, ma soprattutto non riuscì mai ad imparare la lingua tedesca e si esprimeva solo in fiorentino…
Non salì mai sul trono di Toscana e fu costretto insieme al padre e agli altri familiari a fuggire da Firenze e dall’amata Toscana il 27 aprirle 1859.
Lo fece con grandissima tristezza perché amava la nostra terra e perchè aveva da poco seppellito la giovane moglie – morta di tifo durante un soggiorno a Napoli – nella Cappella Lorena in San Lorenzo.
Era un grande ed insospettabile appassionato di fotografia, la nuova arte imparata a Pisa andando a lezione da Van Lint con il quale aveva partecipato ad una grande campagna fotografica in occasione dell’inaugurazione delle linee ferroviarie granducali; uno dei più preziosi gioielli che i principi austriaci ci hanno lasciato in eredità.
Come suo padre, il famoso “Canapone” che altri non era che il Granduca Leopoldo II di Lorena soffrì moltissimo la lontananza di Firenze dove era nato e cresciuto tant’è che nella sua pur sontuosa dimora di Salisburgo aveva praticamente ricreato una copia di Palazzo Pitti, ma soprattutto non riuscì mai ad imparare la lingua tedesca e si esprimeva solo in fiorentino…
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