Morto è l'intrepido forte leone.
E' morto il celebre re di Lamone e il corpo esanime giacente e spento poi dopo morto mette spavento.
Nel volto pallido barbuto e fiero potevi scorgere il Cavaliero, potevi scorgere che quel brigante aveva nobile, civil sembiante.
Anche una poesia – opera di anonimo – celebra le epiche gesta di Domenico Tiburzi, figura controversa del mondo del brigantaggio maremmano ottocentesco.
A distanza di oltre un secolo, ancor’oggi, c’è chi lo condanna senza appello come crudele bandito che si è macchiato di circa venti omicidi e chi invece lo mitizza quale paladino dei diseredati, facendone un romantico eroe che prendeva ai ricchi per dare ai poveri.
Comunque sia, l’avventurosa vita di Tiburzi finì la notte del 23 ottobre 1896 quando cadde in un agguato dei carabinieri alle Forane, presso la casa di campagna della famiglia Franci (a cui aveva chiesto o preteso ospitalità), dove si era rifugiato insieme all’inseparabile compagno Fioravanti.
Di certo sappiamo dalle cronache che ci fu una sparatoria e Tiburzi venne colpito ad una gamba; quel che accadde poi non è chiaro.
Secondo una versione furono i carabinieri ad ucciderlo con alcuni colpi di pistola; secondo l’altra versione fu lo stesso “Re di Lamone” a suicidarsi, preferendo morire piuttosto che cadere nelle grinfie della legge.
Ma se gli ultimi minuti della sua vita sono avvolti in un alone di mistero, ancora più misteriosa, anzi addirittura leggendaria, è la vicenda legata alla sua sepoltura.
Sono trascorsi più di cento anni da questi avvenimenti, ma finora non sono bastate indagini, ricerche ed inchieste per far luce piena su ciò che davvero accadde quella sera d’autunno…
La versione più accreditata, ma anche la più fantasiosa, è quella secondo cui il parroco di Capalbio rifiutò di officiare una regolare cerimonia funebre e la sepoltura in camposanto per quell'uomo ritenuto un criminale, un peccatore, un senza Dio.
Però la volontà del prete si scontrò con quella dell'intera comunità, che invece, esigeva per il “paladino dei diritti dei più deboli” un’onorata sepoltura in terra consacrato.
Si arrivò così ad un compromesso: il corpo di Domenico Tiburzi poteva essere sepolto in terra consacrata ma... solo per metà! L'altra doveva restare fuori dal cimitero!
E così fu. La fossa fu predisposta proprio al cancello d'ingresso del camposanto con gli arti inferiori dentro, ma la testa, il torace - e dunque l'anima - fuori. Niente croce né una targa, oblio completo.
Ma tutto oggi è davvero avvolto nel mistero perché nel frattempo, il cimitero di Caparbio si è ampliato, si sono perse le tracce dell’antico cancello che poteva essere l’unico punto di riferimento della sepoltura e quindi, Domenico Tiburzi, il “Re della macchia”, il mitico bandito maremmano, giace avvolto nel suo alone leggendario che non fa che aumentarne la fama.
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