Policarpo Petrocchi è pistoiese illustre, ma ahimè poco noto.
Un uomo fondamentale nella storia della nostra cultura nazionale. Si deve infatti a lui la stesura del primo vocabolario della lingua italiana, pubblicato a dispense fra il 1884 ed il 1890 a Milano dalla casa editrice dei Fratelli Treves, allora la più importante del giovanissimo regno d’Italia.
Nato a Castello di Cireglio, nel 1852, il Petrocchi dedicò la sua vita all’insegnamento e agli studi filologici, lasciando ai posteri il fondamentale vocabolario “Il Novo dizionario universale della lingua italiana”.
Fu questo, per oltre mezzo secolo, il vocabolario più diffuso in Italia. Dava l'indicazione esatta della pronuncia, separando nettamente la lingua viva dalla lingua morta ed era ricchissimo di esempi raccolti dalla stesso autore.
Lo scopo del Nuovo Dizionario fu quello, cominciando fin dai banchi della scuola elementare, di unificare linguisticamente un paese scarsamente alfabetizzato e diviso da dialetti.
«Attenendoci ad una sola misura, stando a una sola parlata, faremo come tanti bravi soldati intorno a una sola bandiera – scriveva lo stesso Petrocchi -. Faremo finalmente un vocabolario, una grammatica sola, chiara, facile anche per gli stranieri che trovan tanto indigesta la nostra lingua… E non ci avverrà più di scambiare quelli del nostro paese per inglesi e tedeschi».
Fu proprio grazie a questo lavoro che i maestri delle scuole d’Italia poterono insegnare una lingua uniforme ai giovani.
Quelle giovani generazioni che poi, imbevute di retorica patriottica, furono inviate nelle trincee della prima guerra mondiale al macello.
Colto ed intelligentissimo, Petrocchi fu anche, per la sua epoca, un vero anticonformista.
Si innamorò di una donna sposata, che peraltro aveva già una figlia, e con lei visse “more uxorio” per oltre vent’anni!
Grazie all’analisi dei suoi manoscritti, conservati presso la Biblioteca Forteguerriana, studiosi e linguisti cercano di evincere nella cultura contemporanea le tracce dell’opera di Petrocchi, il cui vocabolario, è bene ricordarlo, restò in uso fino al 1952.
Ancora oggi la sua opera, esaurito il suo compito pedagogico, resta la testimonianza più viva e più ricca dell'uso del fiorentino (e del toscano) parlato tardo ottocentesco.
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